Quando l’anno scorso ho saputo che, dopo vent’anni di silenzio narrativo, Arundhati Roy stava per pubblicare un nuovo romanzo, sono andata in visibilio. Ho girato per qualche giorno con occhi sognanti, festeggiato internamente e ringraziato qualunque divinità continui a far vibrare il linguaggio di parole imprescindibili. E poi, chiaramente, mi sono fatta prendere dal panico all’idea di restare delusa e ho messo il libro sullo scaffale appena mi è arrivato, ho evitato di leggere recensioni (lasciandomi terrorizzare dalle poche che intravedevo) e insomma, ho cercato di costruirmi in sostanza dei paraocchi per continuare a vivere in una specie di paradosso di Shroediger letterario. Onestamente, credo sarei potuta andare avanti così molto a lungo.
Non fosse che il mese scorso in casa mia ha preso a circolare la versione italiana – presa in biblioteca – e mio padre ha iniziato a leggerla e insomma. Mi ha svelato – candidamente, ignorando che io ne fossi ancora all’oscuro – che uno dei protagonisti è un (una?) hijra. Il che, ecco, ha un po’ cambiato le carte in tavola, perché di colpo Il ministero della suprema felicità non era più un romanzo che doveva compiere la francamente impossibile impresa di superare (o quantomeno eguagliare) l’amore che provo per Il dio delle piccole cose, che potrebbe essere il libro che più amo tra tutti i libri che ho amato nei miei trent’anni di vita. Semplicemente, era un romanzo intrigante, scritto da un’autrice di cui mi fido tantissimo, che prometteva di gettare luce su argomento che conosco poco e mi affascina tantissimo: la particolare considerazione in cui sono tenute le persone transgender all’interno della cultura indiana, da tempi immemorabili e nonostante l’imperialismo. Sembrava quasi destino.
Questo prologo per, insomma. Circoscrivere un minimo le mie aspettative a inizio lettura, la difficoltà di dare un giudizio non condizionato da pregiudizi (in un senso o nell’altro); l’impossibilità, forse, anche, di farlo. Perché è un dato di fatto che non ho amato questo romanzo quanto ho amato Il dio delle piccole cose, neanche lontanamente; ma è anche un dato di fatto che, se non fosse stata Arundhati Roy a scriverlo, adesso starei probabilmente già setacciando il web alla ricerca di altri romanzi dell’autrice. Come si coniugano due reazioni tanto opposte? Per un romanzo così complesso, tra l’altro, e particolare, composito, che genera reazioni tanto contrastanti (entrambi i miei genitori, lettori forti, l’anno abbandonato a metà lettura perché non riuscivano a seguirlo) e che al tempo stesso è così importante? Forse, semplicemente nell’unico modo in cui puoi affrontarne la lettura: lasciandoti trascinare.
Descrivere la trama è impossibile. Da qualche parte ho letto una critica secondo cui non succedeva niente; il punto è più che altro l’opposto, secondo me, che succede troppo, e al tempo stesso in modo filtrato, e ogni storia si scompone in una storia differente che vortica sulla sua traiettoria finché – miracolosamente – quella stessa traiettoria non torna a intrecciare quella del racconto da cui è partita. È un romanzo sull’India, profondamente, totalmente; molto più de Il dio delle piccole cose, e in modo al tempo stesso più cosciente del profilo internazionale che avrebbe assunto la pubblicazione, e più deciso a rivendicare la propria sovranità utilizzando una lingua di passaggio, veicolare, che serve quasi solo a cucire insieme tutte i diversi linguaggi che ne popolerebbero invece le pagine. Ci sono quarant’anni di orrore, in queste cinquecento pagine, centinaia e centinaia di morti, cicli e cicli di ribellioni; e al tempo stesso storie piccole, immagini tenere, bambini e fiori e foreste. Ogni singola persona celebrata per quello che è: unica e viva.
Anche la struttura è strana e complessa: quasi un patchwork di romanzi diversi, che si sovrappongono ai bordi in una cartografia sfilacciata. La prima parte, quella per cui mi permetto di parlarne qui, in un blog a tematica LGBT, racconta la storia di Anjum, nata Aftab, una donna intersessuale identificata come maschio alla nascita (anche perché erano sei anni e quattro gravidanze che la sua famiglia aspettava un figlio) e del suo costante riconoscimento e trasformazione; il suo ingresso nella comunità degli hijra, il percorso di riassegnazione di genere, l’impatto del movimento transgender occidentale su quella categoria tradizionale e antica, le rivolte che intanto stavano straziando l’India. Ed è dolcissima la maniera in cui Arundhati Roy ne parla, con quella tenerezza ironica che sa dosare tanto bene, quella poesia intrinseca, quel linguaggio traslucido e sognante. Ogni cosa vista anche in controluce.
Un passaggio tra tutti, a titolo d’esempio. (E anche perché è davvero, davvero bello, e davvero, davvero importante a prescindere)
Contesto: Anjum e le sue compagne stanno assistendo alla proiezione di uno spettacolo storico in cui, durante una scena di corte, si sente in sottofondo la risata roca di un eunuco, che viene celebrato dal pubblico come un istante di congiungimento con il proprio passato.
Quell’attimo passava in un battito di ciglia. Ma non importava. L’importante era che ci fosse stato. Far parte della storia, sia pure con un semplice sogghigno, era lontano anni luce dal non esserci affatto, dall’esserne completamente cancellati. In fin dei conti una risatina poteva diventare un appiglio nella parete a strapiombo del futuro.
Che è così vero, e così bello e giusto, da commuovermi ogni volta che lo rileggo. E racchiude perfettamente, al dettaglio, il motivo per cui la rappresentazione – vera, fittizia, festosa, seria – delle categorie marginate è fondamentale, e andrebbe potenziata sempre di più.
Anjum è solo una parte del romanzo, però. Ed è solo una parte l’agente dei servizi segreti che racconta in prima persona quasi un quinto della storia, presentando quella che è la protagonista principale; è una parte la protagonista stessa, per incantevole e meravigliosa e perfetta come creatura di Roy che sia; è una parte l’uomo che ha amato, e che rappresenta forse il genere di personaggio maschile prediletto dall’autrice; è una parte persino l’India stessa: il Kashmir, le sue ferite, la sua guerra. Tutto insieme, articolato e dipanato e ricamato come un arazzo immenso, ed è vero che la presenza dell’India è fortissima, che non si riesce a stare dietro a tutto, ma forse non è quello il punto. Non è un trattato di storia; se si vuole mandare a memoria ogni fatto si può prendere un saggio. Con questo romanzo in mano bisogna lasciarsi trascinare, invece, come dal tempo o dall’acqua; con la consapevolezza che tutto torna, e non torna mai nulla, e che tutto è importante e nulla lo è al tempo stesso. Che ogni dolore è assoluto. E si può amare comunque, nonostante questo.
C’è un altro passaggio, in particolare, che descrive perfettamente tutto questo: «Come raccontare una storia frantumata? Diventando pian piano ogni persona. No. Diventando pian piano ogni cosa.» Ed è questo che fa Roy, in ogni pagina. A volte, anche a dispetto del suo stile inconfondibile, assumendo punti di vista contrastanti, scegliendo linguaggi espressivi diversi. Senza dare maggiore rilievo a una cosa rispetto che a un’altra. O non troppo, almeno. Un tentativo.
E d’accordo, ho parlato tanto e detto poco, credo; pensavo sarebbe stato un commento molto più ridotto. Questo romanzo in realtà rientra nella Read Harder Challenge e potrebbe funzionare per due task, almeno: libro ambientato in un paese Brics e romanzo postcoloniale. Deciderò più avanti, credo, per quale farlo valere.
Non è una lettura che consiglio a chiunque, chiaramente; bisogna avere un po’ di flessibilità, immagino, godere di quelle letture fiume che ti trascinano e non sai dove ti portano ma le ami lo stesso. A chi ha amato Il dio delle piccole cose, consiglio di provare il più possibile di dimenticarsi che l’autrice è la stessa, per non caricare tanta responsabilità su un romanzo così diverso che rischia di deludere per forza. E che non merita questo trattamento.
Io l’ho amato tantissimo, comunque. Anche se in modo diverso.
E – nota a margine – la traduzione italiana è stupenda, a mio avviso.
Presentazione dell’editore
Il ministero della suprema felicità ci accompagna in un lungo viaggio nel vasto mondo dell’India: dagli angusti quartieri della vecchia Delhi agli scintillanti centri commerciali della nuova metropoli, fino alle valli e alle cime innevate del Kashmir dove la guerra è pace, la pace è guerra e occasionalmente viene dichiarato lo «stato di normalità».
Anjum, nuova incarnazione di Aftab, srotola un consunto tappeto persiano nel cimitero cittadino che ha eletto a propria dimora. Una bambina appare all’improvviso su un marciapiede, poco dopo mezzanotte, in una culla di rifiuti. L’enigmatica S. Tilottama è una presenza forte ma è anche un’assenza amara nelle vite dei tre uomini che l’hanno amata: tra loro Musa, il cui destino è indissolubilmente intrecciato al suo.
Dolente storia di sentimenti e insieme vibrante protesta, Il ministero della suprema felicità si snoda tra sussurri e grida, tra lacrime e sorrisi. I suoi eroi, spezzati dalla realtà in cui vivono, si salvano grazie a una cura fatta di gesti d’amore e di speranza. Ed è per questa ragione che, malgrado la loro fragilità, non si arrendono.
Questa storia profondamente umana reinventa ciò che un romanzo può fare e può essere, e riafferma ad ogni pagina le doti narrative di Arundhati Roy.
Dati tecnici
Titolo: Il ministero della suprema felicità
Autore: Arundhati Roy
Traduttrice: Federica Oddera
Casa editrice: Guarda
Anno di pubblicazione: 2017
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