Quest’estate ho letto tantissimo, in un sacco di generi diversi, e in realtà pensavo di fare un post complessivo che li citasse un po’ tutti, ma ho impiegato 1500+ parole solo per parlare dei pochi titoli LGBTQ presenti nel mucchio e quindi insomma. Penso che questa prima tranche sarà dedicata solo a questi.^^
Una piccola premessa, prima di cominciare: è stato un periodo strano – come forse si poteva intuire dalla mia ennesima sparizione dal web – e sono abituata a reagire a questi momenti rifugiandomi nella lettura, ma era tantissimo tempo che non riuscivo a indirizzare questa voracità su romanzi “veri” invece che su milioni di parole volte a regalare un finale più dolce a Bucky Barnes, e scoprire di esserne ancora in grado è stato un sollievo enorme. È probabile che a questo post ne segua un altro sulla narrativa non LGBTQ, e sto meditando di rendere un po’ più flessibile la tematica del blog, a questo riguardo, perché avrei davvero voglia di parlare degli altri romanzi divorati in questi mesi, e incrociando le dita potrei riuscire a mantenere un minimo ritmo anche uscita dalla parentesi estiva, quindi insomma. Vedremo.
Adesso veniamo ai libri, però.^^ In realtà non so quanto possano interessare perché non si tratta di titoli particolarmente famosi nell’ambiente, credo, o in cui la tematica queer sia troppo dominante, ma per molti versi ci sono arrivata grazie a lei e mi è venuto naturale leggerli in quell’ottica. Due sono titoli recenti che avevo già segnalato in qualche post, credo, Cattiva di Myriam Gurba ed Elmet di Fiona Mozley, editi rispettivamente da Fandango e Fazi. Li ho apprezzati molto entrambi, anche se nessuno dei due mi ha rubato il cuore del tutto. Tradotto da Chiara Brovelli, Cattiva è un memoir molto interessante – e in certi punti persino lirico – in cui l’autrice (bisessuale e queer) racconta la sua storia scegliendo come perno la violenza sessuale subita, e ancora di più il fantasma delle donne che sono state vittima dello stesso predatore. Insieme si parla di cultura dello stupro in senso lato e dell’integrazione dei Latinos nella cultura statunitense, in un libro ancora più ibrido della maggior parte dei memoir (che sono per definizione il cesellamento letterario di un’esperienza vera) che prova anche a sperimentare un po’ con gli stili. In generale, offre un ritratto realistico e non troppo comodo di una donna che cerca di andare contro le imposizioni culturali, rivendicando una “cattiveria” che a volte sembra semplice spontaneità o fermezza come posizionamento personale e di genere.
Elmet (tradotto da Silvia Castoldi) si colloca un po’ sul polo opposto, invece: storia inventata, narratore apertamente separato dalla figura dell’autrice e ambientazione boschiva e verdeggiante, nelle campagne dello Yorkshire. Il protagonista è un ragazzino strano, sensibile e isolato dai coetanei – la sua sessualità viene sfiorata appena, ma il fatto che il romanzo abbia vinto il premio Polari dedicato agli esordi a tema LGBTQ mi ha autorizzato a leggerlo fin dall’inizio in quest’ottica, e penso che per me almeno la fruizione ne abbia giovato – che si trova a vivere con la sorella maggiore e il padre in una casa spersa in mezzo alla campagna. Il padre è un uomo complicato, duro, in eterna fuga da un passato che gli soffia sul collo, e i figli crescono nella sua ombra un po’ densa, trovando strade e forme difficili. Non so bene quanto dire della trama perché la tragedia incombente è dichiarata fin dal primo capitolo, eppure al tempo stesso rimane per quasi tutta la narrazione – eccettuati i flashforward – una sorta di tensione sotterranea, soffusa. Sai che andrà in una direzione terribile, e ogni minimo evento quotidiano è pervaso da questa consapevolezza, che spesso però rimane solo in potenza. È la storia di una ragazzina che rifiuta di stare al suo posto e ne paga lo scotto, per certi versi; per altri è la storia di un padre che non sa mettere al sicuro i suoi figli e li getta in pasto ai lupi proprio quando credeva di aver dato loro almeno una casa; per altri ancora la tragedia – ma paradossalmente in controluce, pur riguardando il narratore – di un ragazzino sensibile e lasciato libero di crescere come voleva costretto a fare i conti con un mondo che prosegue seguendo leggi diverse e non fatte per lui. La scrittura è bellissima, curata ed evocativa, l’ambientazione al tempo stesso dettagliata e fiabesca. (Considerato il titolo, che fa riferimento all’ultimo regno celtico indipendente d’Inghilterra, forse anche mitologica). Complessivamente molto apprezzato.
A parte queste due “nuove” uscite, a maggio – quindi fuori da questa finestra temporale che riguarda più che altro i mesi estivi – mi sono trovata per le mani Lo spazio del tempo di Jeanette Winterson (tradotto da Chiara Spallino Rocca), e ho più o meno deciso di approfittare della voglia di leggere per cominciare un excursus nella sua produzione. Lo spazio del tempo è un romanzo piuttosto articolato, che ho letto con una gioia e una spontaneità che non provavo da tempo – penso sia stato questo a mettermi nell’ottica mentale giusta per un ritorno al piacere della lettura – e che si inserisce in un’interessante collana della Hogarth dedicata alle riscritture shakespeariane (portata in Italia da Rizzoli). L’opera scelta da Winterson è The Winter’s Tale, e il romanzo segue le sue linee di gelosia, vendette e ritrovamenti sotto mentite spoglie attualizzandone l’ambientazione: il re che bandisce la figlia sospetta di essere nata da un adulterio è un manager londinese, la figlia viene cresciuta da una famiglia di neri in Nuova Boemia, negli USA, la madre è una cantante francese, etc. Si tratta di un romanzo di Winterson, però, che sa sempre giocare in modo affascinante con il tema della sessualità, ed ecco quindi mutare il tradimento immaginato dal re/manager protagonista: l’amico che sospetta sia il vero padre della figlia è in realtà un suo vecchio amore/amante, il triangolo che condanna tutti e tre i protagonisti all’infelicità sarebbe facilmente risolvibile (per me almeno, e non nascondo che è probabilmente questo ad avermi fatto amare tanto la storia) in una relazione poliamorosa. La maniera distruttiva in cui Leo gestisce i suoi impulsi – cercando letteralmente di ucciderli – è stato per me più tragico di ogni altra circostanza più o meno esagerata, e molto più credibile e intimo: lo guardavo fare cose orribili e non riuscivo a non amarlo in qualche modo, per la sua cecità e i suoi difetti. Il romanzo non ha avuto un’ottima accoglienza, in realtà, a quanto ho visto, ma per me leggerlo è stato davvero un balsamo.
Il recupero di Jeanette Winterson è proseguito con Non ci sono solo le arance (trad. Maria Ludovica Petta), che è stato il primo dei suoi libri su cui abbia posato gli occhi – un estratto era citato nelle dispense del primo corso di traduzione fatto all’università, insieme ovviamente a Scritto sul corpo – ma che finora non avevo mai affrontato. Forse è colpa della troppa aspettativa, ma l’ho amato meno dell’altro suo testo autobiografico – Perché essere felice quando puoi essere normale – e mi è parso più incentrato sul tema della religione e del rapporto con una madre dirompente, insieme immensa e terribile (che mi ha ricordato altri suoi personaggi femminili fittizi, come la madre di Il sesso delle ciliegie), che a quello del coming-out, della scrittura o della presa di coscienza del proprio orientamento sessuale. Resta comunque un classico moderno – nel genere LGBTQ, almeno – e sono felicissima di averlo finalmente letto. Ho una pila di altri libri di Jeanette Winterson nello scaffale della libreria, quindi credo proprio che tornerò a parlarne in futuro. (Di recente ho anche riletto l’originale de Il sesso delle ciliegie, per questo il paragone con la madre mi è venuto spontaneo, e farlo con altri occhi e un’attenzione diversa ha reso ancora più intensa la mia ammirazione per il modo in cui Winterson sa usare le parole: il ritmo delle frasi, dei pensieri, della narrazione stessa è assolutamente unico).
Parlando di recuperi, infine, qualche giorno fa mi sono finalmente sbloccata e, dopo ANNI in cui l’avevo in lista, provavo a leggerlo e lo abbandonavo alla decima pagina, sono riuscita a leggere l’altro capolavoro della vita di Marguerite Yourcenar, L’opera al nero (trad. Marcello Mongardo), divorato in un paio di giorni. Lo inserisco in questo recap LGBTQ anche se ovviamente questo aspetto è più che marginale solo perché mi commuove tantissimo il modo in cui Yourcenar ha sempre gravitato intorno al tema omosessuale, in un periodo storico e letterario senz’altro ostile: lo considero un dono. Al netto della sua scrittura meravigliosa, che in alcune pagine brilla della stessa magia che mi ha fatto vendere l’anima a Memorie di Adriano, e della rapidità sorprendente con cui l’ho finito, l’ho trovato più ostico degli altri suoi libri letti finora, uno storico più asciutto e meno filtrato dalla sensibilità di un punto di vista preciso. Per chi non lo conoscesse, il romanzo – che nella sua nota d’autore finale Yourcenar racconta di aver iniziato a diciannove anni, con un trittico di racconti meno incentrati sul protagonista definitivo, per poi passare tutta la vita a rimaneggiarlo – racconta la storia di un (immaginario) medico/filosofo/alchimista del 1500, nell’Europa infiammata dalla Riforma e dai bagni di sangue dei sollevamenti popolari, Zenone, una sorta di sintesi di tanti letterati e filosofi realmente esistiti. Dalla nascita illegittima fino alla morte, seguiamo la sua traiettoria esistenziale, le sue riflessioni filosofiche (e bellissime), il fiorire e appassire di tutta una cultura che per molti versi ha creato le basi della nostra e l’umanità commovente, e forse fuori tempo, con cui guardava il mondo, i corpi, le passioni. Il segreto oscuro, che segreto non era del tutto – il modo in cui le sue inclinazioni sessuali tendevano più verso corpi simili al proprio – è al tempo stesso periferico e centrale al suo punto di vista (e verso la fine alla sua storia), e parla di lui (commento storicamente fondato sulla realtà di tante personalità del tempo, e sul modo in cui quel tempo in bilico tra ere diverse affrontava deviazioni del genere) ma anche dell’autrice stessa, immagino, più ancora che in Adriano: perché frutto di una scelta precisa, invece che in qualche modo imposta dal personaggio. Non lo consiglierei come ingresso nella sua opera – salvo per lettori fortemente appassionati di storia e/o filosofia – ma come complemento sicuramente.
Prima o poi arriverà anche un aggiornamento sulle storie in cantiere (e già uscite), giuro. Ma è stata un’estate un po’ povera, in quel senso – o forse in effetti è solo l’umore a colorarla in quel modo, dato che sono usciti gli Aironi e insomma, non è poco^^ – con l’autunno ho tante idee non ancora ben organizzate. Una notizia piuttosto grossa – per me, almeno – dovrebbe arrivare tra non molto, però.^^
Per il momento, a presto!
“Cattiva” lo tengo d’occhio da un po’, lieta di sapere che non sia affatto male. Di Jeannette Winterson ho letto solo “Perché essere felice quando puoi essere normale” e mi era piaciuto tanto, devo ancora decidermi a leggere altro di suo. Eh, devo riprendere anche Yourcenar, il cui “Memorie di Adriano” ho tanto amato… magari ripartendo proprio da una bella rilettura!💚