Il giorno in cui ho saputo che Sabrina stava morendo – in cui l’ho saputo per certo, nel presente, non come cosa che sarebbe probabilmente successa nell’arco di qualche anno, non come ombra inspiegabile che aleggiava sui giorni, come convinzione infida che cercavo di sradicare dalla testa – mi sono svegliata da un sogno in cui finalmente cominciava a stare meglio. Erano mesi, forse persino un anno che non la sognavo, e il sogno non gettava una patina onirica su questi ultimi tempi, li riconosceva nel profondo. Era stata male, e adesso stava meglio. Persino l’incontro avveniva su Skype, all’inizio, che okay, non aveva mai fatto parte dei nostri strumenti di contatto, ma radicava comunque il sogno nella dimensione reale della nostra storia: quella di un rapporto a distanza, vicino soprattutto nell’anima. Il sogno ovviamente proseguiva nel modo in cui capita spesso, con stacchi inspiegabili e del tutto arbitrari: la cosa successiva che ricordo è che la raggiungevo di persona e ci abbracciavamo e andavamo a casa sua costeggiando il corso di un fiume sperso nella campagna. Io mi voltavo, a un certo punto, perché non aveva senso neppure nella topografia del sogno, e alle mie spalle c’era un’ansa morbida e soffusa di violetto, con acqua calma che scorreva piano intorno a pietre tondeggianti, grandissime, di un bianco come poroso, sfumate da una nebbia leggera. Un’inquadratura serena, paradisiaca. Forse più il mio paradiso del suo, a dirla tutta, ma cosa ci si può aspettare da un sogno? Il mio inconscio stava provando a darle la cosa più bella che avevo, credo.
Mi sono svegliata con la convinzione inspiegabile che fosse un segno. Che se io stavo meglio perché l’avevo vista, in qualche modo, doveva stare meglio anche lei, che fosse tutto collegato. E sapevo che era assurdo. Lo sapevo benissimo. Ma adesso mi chiedo se non ci fosse qualcosa di più profondo in tutto questo, nella corrispondenza orribile delle cose, così come mi chiedo se il dolore che ho provato a inizio settembre per qualcosa che con lei non c’entrava nulla fosse perché già sentivo che stava male anche se non lo sapevo ancora. Se il fatto che mi sto trascinando questo lutto da tre mesi, anche quando pensavo che fosse la cosa peggiore che potessi fare, quando mi sembrava di tradirla a considerarla una fine quando ancora non si sapeva nulla di certo, quando c’erano solo le sue paure, le nostre, quando tutto quello che leggevo in giro parlava dell’importanza di pensare positivo, di credere, di prepararsi a dare battaglia, fosse perché qualche seme di consapevolezza aveva già cominciato a radicarsi e perché qualcosa, in me – in lei, per tutti questi anni -, intuiva già il profilarsi di questo momento.
Quando è cominciata la pandemia, a marzo – quando ci siamo chiusi tutti in casa, ad aspettare con il fiato sospeso – lei l’ha vissuta male come la maggior parte delle persone, forse più della maggior parte: l’ansia era sempre un amplificatore terribile. Mi ha detto – mi ha scritto, perché ci scrivevamo sempre soltanto – che non riusciva a credere che avessimo sprecato così tanto tempo a discutere e ad aspettare il momento perfetto quando per anni eravamo state libere di fare di tutto, di parlarci a quattr’occhi, abbracciarci, vederci. Come se fossimo separate per sempre, ormai. Come se non solo non avremmo mai più potuto avere indietro quei giorni, ma ci fossero stati sottratti anche tutti quelli futuri. Continuo a pensarci. Alla sicurezza inevitabile ma adesso così miope con cui le avevo detto di concentrarsi sulla realtà, di non farsi prendere dal panico, con cui le avevo fatto notare che era molto improbabile che a noi succedesse qualcosa di serio, che quel qualcosa di serio potesse essere fatale. Che anche nella peggiore delle ipotesi, prima o poi sarebbe finito tutto. Che persino la Spagnola si era spenta da sola, più o meno. Lei mi aveva creduto nel modo in cui credi alle rassicurazioni che cozzano contro le tue convinzioni più profonde, credo. O forse non mi aveva creduto per nulla e aveva fatto solo finta, forse neppure quello: un mese fa sono tornata a rileggere lo scambio ma verso la fine piangevo così tanto che onestamente non ricordo nulla. Solo il pensiero assurdo che a quel tempo lei si preoccupava del Covid, io nemmeno di quello, e che adesso siamo qui. O sono qui io, ancora. Con quest’altra cosa che le ha risucchiato la vita. E la profezia stupida e impossibile di quel messaggio che non avevo voluto davvero ascoltare mi risuona nelle orecchie un po’ sordo. Con il dubbio che forse, se ci avessi creduto di più, se ci avessi creduto un minimo, mi sarei comportata diversamente nei mesi successivi. Avrei cercato di approfittare di più del tempo che restava, invece di proteggermi nei modi piccoli e meschini con cui avevo cominciato a proteggermi anche da lei, negli ultimi tempi: evitando ogni cosa che potesse creare crepe, ogni minimo dolore. La possibilità che non mi rispondesse a un messaggio, le settimane o i mesi di silenzio che diventavano ancora più lunghi e sospesi se ero stata io ad avere l’ultima parola, se il gorgo tornava a rapirla lasciando la conversazione sospesa. Adesso, che ho letteralmente passato gli ultimi due mesi a lasciarle messaggi per cui non aspettavo risposta – adesso che mi bastava sapere che li aveva ascoltati, sapere che avevo potuto per quella manciata di secondi ogni tot giorni starle forse un po’ più vicina –, mi sembra una viltà così stupida. Così controproducente, un auto-sabotaggio e basta.
Penso sia un modo per tentare di credere – o non credere – alla realtà anche questo. Convincersi che sia come quando scrivendo arrivi a un punto morto e ti accorgi che avresti dovuto cambiare tutto mezzo libro indietro, come ci è capitato così tante volte con la Rosa, come quando andavamo avanti lo stesso ancora un poco prima di ammettere che no, andava disfatto tutto. Ritrovare lo snodo in cui tutto ha cominciato a sfaldarsi, a deteriorare, e tagliare via quel che è venuto dopo, anche se gli volevi bene ed era comunque bello. Tornare indietro, con una conoscenza più profonda di quel che troveresti seguendo una certa strada, e provarne una alternativa. Che cosa farei, se fosse possibile anche nella vita? Qual è lo snodo che proverei a trasformare in bivio, cosa potrei fare di diverso? Non tirare su le barriere che ho alzato per orgoglio quando mi sentivo trascurata? Insistere perché radicassimo il nostro rapporto nella realtà invece di lasciarlo consumarsi soltanto di parole, insistere per andare da lei quando non se la sentiva, chiederle di andare insieme a Siviglia come sognavo da sempre? Spedirle le cartoline di Lorca che avevo comprato per lei a Granada, tutte, invece dell’unica che mi sono decisa a mandarle soltanto l’autunno scorso insieme alla copia degli Aironi? Le avevo mostrato tutte le foto che avevo fatto per lei, con lei metaforicamente accanto, davanti alla casa di Cernuda, davanti a quella di Aleixandre, o anche quelle erano scivolate nelle crepe che quell’anno si stavano aprendo dappertutto? O l’errore è venuto solo dopo – è venuto anche prima? È stato un errore davvero, o semplicemente una brutta mano giocata alla cieca? Che cosa sarebbe cambiato, se avessi fatto qualcosa di diverso? Lei si sarebbe ammalata comunque. Forse, in qualche modo oscuro che non riesco a spiegare, si portava già dentro, nell’alfabeto del sangue, quello che sta succedendo adesso. Lo stillare estenuante di questa morte di cui non riesco a immaginare la faccia, che lei non vorrebbe immaginassi, credo, per non sovrapporla alla sua. Una parte di me odia il fatto che la sua vita per me – come la mia, del resto – sia così orribilmente intrecciata alla scrittura.
Un’altra parte pensa alla delicatezza di Sam, agli abissi che sapeva aprire nella poesia. Pensa all’identificazione viscerale che legava lei ad Edward, al modo in cui Edward stesso portava in sé, anche se forse non l’abbiamo mai detto esplicitamente – anche se forse lo sto solo inventando io, l’ho solo inventato in questi mesi, una suggestione sempre più forte, come un’ombra applicata passo a passo -, un seme di buio molto simile a quello che l’ha divorata da dentro. Pensa a Gabriel ed Ethan e a quella storia che non ha fatto in tempo a scrivere, a Liam e Jean e al gabbiano nero che non ha fatto in tempo a completare, pensa alla ragazzina di diciott’anni che ha trovato la prima versione di quella storia e se n’è innamorata nel modo in cui si innamorava di mille storie ogni giorno, allora, e ha cominciato a parlare con chi l’aveva scritta, e si è innamorata di lei in un modo in cui non si è mai più innamorata di nessuno. Penso al modo in cui ci siamo amate, scrivendo, a Mike e Ash, e a Rowan, e a Björn che non sono mai riuscita a regalarle, e come sempre è come se non fossero solo nomi di personaggi inventati, ma nomi che abbiamo dato a pezzi di noi, al nostro modo di volerci bene e capirci, e forse non è sbagliato che continui a ricordarla così, soprattutto, con quelle maschere che erano più vere di tanti altri volti che abbiamo, forse non è assurdo il pensiero che in qualche modo lei viva ancora, in quelle storie non finite, nelle parole che mi ha dato negli anni. Forse non è sbagliato che una delle cose che più mi spaventano, una di quelle su cui so finirò per concentrarmi di più, sia fare in modo che quelle parole, quelle storie, quei personaggi non vengano toccati da tutto questo. Che ogni volta che sentirò la sua mancanza, in questo modo indicibile di cui sento già l’impronta ma che non riesco ancora neppure a immaginare, potrò aprire uno di quei pezzi e ritrovarla. Che sarà lì, davvero, viva. Almeno per me. Nel modo in cui lo era.
So che è quello che lei avrebbe voluto. È quello che mi ha chiesto, esplicitamente, la prima volta come rassicurazione surreale in un momento in cui lo scenario che dipingeva sembrava del tutto implausibile. Che se lei non avesse potuto più farlo, avrei portato avanti io la Rosa, che avrei dato un finale a tutto. Gliel’avevo promesso nel modo in cui prometti le cose più ovvie, come una mamma che dice al figlio che andrà tutto bene quando assolutamente niente lascia pensare che qualcosa potrebbe andare male, soltanto incubi, paure bambine. Sembrava così fuori dal mondo quel pensiero: sembrava che l’unica cosa che avrebbe potuto impedirci di continuare quella storia insieme sarebbero stati i suoi problemi da viva, le cose che hanno reso questi ultimi anni così faticosi. La seconda volta che me l’ha detto è stata in uno dei due soli messaggi che è riuscita a lasciarmi in questi tre mesi, e forse è per questo che ho in mente la sua voce quando lo dice: perché capitava di rado di sentirci fisicamente. Anche in quel momento era sembrata un’esagerazione. Razionalmente, almeno: la parte di me che si basava sui dati, su ciò che sapeva di certo, sulle probabilità e le statistiche e lo strato di incredulità che deformava tutto. Al tempo stesso, avevo singhiozzato un’ora riascoltando in loop il messaggio. E adesso mi chiedo se la ragione per cui sto piangendo così poco in questi giorni è solo lo shock che tutto sia successo così in fretta – quell’incredulità sempre più impalpabile e sempre più pervasiva – o se sia solo perché c’è una parte di me più segreta che non sta facendo altro da allora.
Continuo a pensare che non ha letto nulla della seconda metà di Theo. Che l’ho scritta nel mese in cui avrebbe potuto ancora farlo, ma si era allontanata – in cui ho lasciato che si allontanasse perché era quello che faceva sempre e perché non avevo la più pallida idea che sarebbe stato l’ultimo periodo in cui avrei avuto occasione di dirle davvero qualunque cosa –, e poi nelle due settimane in cui lei era già in ospedale e io non lo sapevo. Che ho scoperto cosa fosse successo solo quando le ho scritto per dirle che l’avevo finito. Che non lo leggerà mai. Che dovrò pubblicarlo sapendo questo – e dovrò pubblicarlo perché è quello che avrebbe voluto. Penso che ha visto uscire In luce fredda, almeno – che ha visto qualcosa di concreto della Rosa – ma l’altro giorno ho ripensato a come nel contratto fosse indicato un tempo di pubblicazione diverso, che secondo i miei calcoli sarebbe dovuto uscire quest’autunno, invece che alla fine dell’inverno scorso, e che ero stata contenta di scoprire che mi sbagliavo perché concentrarmi su quello mi aveva aiutato in un periodo che allora mi era sembrato durissimo, e adesso continuo a pensare: secondo quei miei calcoli inziali avrebbe dovuto uscire adesso. Mentre lei era in ospedale. Mentre stava morendo. Non avrebbe potuto neanche vederlo, saperlo. Non avrebbe potuto neanche rendersene conto. E mi sembra una cosa così egoistica e superficiale e assurda, pensarlo, ma poi risento la sua voce – la sua voce vera – e quello che si è sforzata di dirmi anche in quel momento, quello che mi ha detto allora, i ringraziamenti assurdi, e penso agli anni bellissimi e densi e febbrili in cui le cose succedevano senza toccarci, in cui non c’erano che loro, non c’eravamo che noi. E penso che lei l’avrebbe capito meglio di chiunque altro. Che avrebbe voluto che la ricordassi in quel modo, soprattutto.
Non so come andranno i prossimi mesi, cosa riuscirò a fare. So cosa lei avrebbe voluto che facessi, ma so anche cosa sento di doverle, in qualche modo, e sono due cose che paradossalmente non si sfiorano nemmeno. Nel momento in cui scrivo, non ho ancora detto niente a nessuno. Non è ancora successo niente di definitivo: sta succedendo, però, lontano da me, spero ancora per poco. Questa mattina mi sono svegliata con un messaggio che mi ha costretto a riconoscerlo, invece di sfiorare il pensiero con un angolo del cervello come faccio da giorni, e ho sentito bisogno di scrivere qualcosa finché avevo ancora il distacco per farlo. (O per accorciare il distacco, forse: difficile dirlo.) Quando pubblicherò questo pezzo – se lo pubblicherò, devo ancora deciderlo – sarà tutto finito, lei sarà in pace, qualunque cosa significhi, e so che per una parte di me questo sarà un sollievo. Per l’altra parte comincerà un percorso in cui sarò sola davvero. Faccio fatica a immaginarlo.
Mi dispiace arrivare dal nulla e lanciare questa bomba. So che ci saranno persone toccate, che ci saranno persone che avrebbero meritato più delicatezza. Speravo che ci sarebbe stato tempo per parlarne con lei, chiederle cosa voleva che si sapesse, cosa potevo dire: che ci sarebbe stato il tempo perché altri, oltre che me, potessero starle vicini con il pensiero. Non sono del tutto sicura di esserci riuscita neanche io, però. Un mese fa, quando le cose sono peggiorate davvero, ero arrabbiata che fosse successo adesso, con la pandemia di mezzo, perché pensavo che avrebbe reso tutto ancora più difficile. Adesso so che non sarebbe cambiato niente lo stesso, e non mi resta neppure la rabbia: non verso l’irresponsabilità delle persone, almeno. Forse un po’ verso il destino. Più per quello che le ha riservato negli anni che per questo finale tanto brutto.
C’è una cosa che la sua famiglia mi sta ripetendo da giorni, che io sto ripetendo a loro, in una specie di eco, una banalità retorica che non per questo è meno vera: adesso sarà in pace, almeno. Finirà questa traversata difficile, raggiungerà il nord che ha cercato per tutti questi anni, la serenità e l’equilibrio che sembravano sempre così lontani, impossibili. Continuo a pensare al verso di Leonard Cohen che abbiamo sempre preso come anima della Rosa: All men will be sailors then, until the sea shall free them. Il mare l’ha liberata, adesso. E l’unico augurio che mi sento in grado di fare è quello che ho messo in epigrafe a Ultimo oceano, senza voler ammettere neanche a me stessa che era a lei che stavo pensando, ma riconoscendolo comunque, nel profondo: un verso di Emily Dickinson. I wish you a kinder sea. Non sono riuscita a dirtelo di persona, Sabrina, perché sembrava il tipo di augurio che funziona meglio in silenzio. E forse ha funzionato davvero, non so. Non posso saperlo. Ma lo sto pensando tantissimo. Un mare più dolce, gentile. Calmo, dopo tutte queste burrasche e questo freddo. Dove navigare senza bisogno di decidere la rotta, come piaceva a te. Per il puro gusto di farlo.
Come nella Rosa. Quando scrivevamo per il puro gusto di scrivere, e vivevamo per quello.
[In copertina, una delle tante sue foto che ho amato intimamente negli anni. Mi sembrava giusto ricordarla anche così.]
Oggi mi spezzi il cuore. Non perché avevo dei sospetti da molto tempo né perché, ogni tanto, sono riuscita a parlare con lei – sono sicura che, da qualche parte, aveva messo un like su una mia foto Instagram ma non lo trovo. Mi sbaglio? Aveva un account lì? È stato poi disattivato e per questo non lo trovo? Non lo so, ma ricordo così e mi sento stupidamente in dovere, per qualche motivo, di fartelo vedere come se ci fosse qualcosa di lei anche in quel like da restituirti, perché devi vederlo e fare da casa anche a questa traccia infinitesimale di lei di cui mi sento illegittima fruitrice –, e nemmeno perché ho letto alcuni dei vostri lavori insieme in cui si respirava la vostra simbiosi, una simbiosi che ho sempre “invidiato”, se puoi passarmi il termine, che mi faceva desiderare qualcosa di almeno simile, anche se poi ogni simbiosi è diversa, una storia a sé, con la sua nascita, le tragedie. La fine.
E non so perché sto farneticando così, ma piango da quando ho letto la prima riga un’ora fa, poi ho fatto una pausa e ho riletto di nuovo tutto, giusto per mantenere fede al mio motto del “facciamoci del male fino in fondo.” Io non so perché, ti giuro. Non so nemmeno cosa dire. O meglio, una cosa ce l’ho, e spero che non urti la tua sensibilità. Spero che tu capisca cosa intendo.
È questa.
Ho pensato tutto il tempo di questa lettura che Sabrina è stata fortunata – non certo per com’è andata, ma quello, sai, toccherà a tutti, prima o poi, in modo inaspettato oppure previsto, abbiamo questa data di scadenza da qualche parte e somigliamo a quei dannati barattoli dove non la si vede. Ma c’è –, che non so cosa darei perché qualcuno scrivesse per me, alla mia scomparsa, parole come tu hai scritto per lei. Non so cosa darei per essere ricordata così e per avere vissuto mille storie e continuare a vivere lì, in quelle pagine e nella persona con cui le ho condivise, per sempre. Questa ricchezza è immensa e rarissima. Ecco, io penso questo. Hai reso bello tutto quel tempo della sua vita, e l’hai resa, in parte, immortale in quelle storie, in questi ricordi, in queste parole che tutti, io credo, sentiamo sulla pelle perché tutti abbiamo perso almeno qualcuno importante. Qualcuno che non può esserci restituito e dopo il quale ci siamo sentiti soli senza rimedio.
Forse per questo fa tanto male.
Ti abbraccio. Ti dico, come posso e forse in modo banale, che sola non sei anche se ti ci senti, e credo ti sentirai, perché perdere una parte così integrante di sé e del proprio rapporto con la scrittura (perché lei era parte anche di questo) è un qualcosa a cui non c’è cusa né consolazione. Col quale, forse, non ti resterà che imparare a convivere.
E posso dirti che trarrai nuova linfa anche da questo dolore, perché alla fine è cosa facciamo quando scriviamo: noi trasformiamo il dolore, il solo modo di portarlo senza che ci uccida, senza esserne schiacciati.
E io sarò lì a leggerti.
Ma per stasera mi fermo.
Sei una persona speciale e pensa sempre all’enorme ricchezza che vi siete donate. Questo conta davvero, il modo in cui viviamo, quello che lasciamo, come siamo ricordati; non come moriamo.
Ti abbraccio (di nuovo).
Ciao Mick, volevo ringraziarti per questo commento, e anche per il post che hai fatto sul gruppo – l’ho intravisto ieri, ed è stato dolce (non riesco a usare un altro aggettivo in questi giorni, è l’unico che sembra cogliere un po’ quel senso di carezza in un momento in cui non vuoi particolarmente essere toccata) come tutti i pensieri che ho visto dedicarle – e per aver partecipato con empatia a questo momento da cui forse avresti anche potuto scegliere di non farti toccare troppo.
Volevo ringraziarti anche per quello che hai detto nello specifico, per il discorso sulla fortuna, perché mi ha fatto piangere, ieri, in un modo un filo diverso dagli altri, e perché è una cosa che sto pensando molto in questi giorni, rispetto a lei, a tutte le persone che adesso stanno male perché l’hanno conosciuta. C’è un verso di Cernuda che continuo ad avere in testa da settimane, e solo oggi (grazie anche al tuo commento) sono riuscita a capire perché. L’ho citato già a due persone, una delle quali suo marito, perché è un verso particolarmente legato a Sabrina dato che è uno dei pochi di Cernuda che è stata lei a regalare a me, invece che il contrario: “Tutto ha avuto avuto un prezzo, sì, il suo alto prezzo, ma ne è valsa la pena”. Penso che sia così, alla fine. Non avrebbe dovuto finire in questo modo, ma è successo, e nonostante questo ne è valsa la pena.
Ti abbraccio anche io.
(Dimenticavo: il suo account IG c’è ancora, è questo: https://www.instagram.com/sabrina_waterflea.)
L’account l’ho pescato, il suo like no. Se ci riuscirò, te lo restituirò (ho l’idea malata che ci sia qualcosa di S. in quel like. Come c’è qualcosa di noi in tutto ciò che ci è piaciuto, che abbiamo odiato o amato).
E non ringraziarmi di niente, è il minimo, e sappi che per lei si sono fatti vedere in tanti. Un giorno, se vorrai, se lo crederai opportuno, potremmo anche dedicarle una giornata attraverso i suoi e i vostri scritti, ma solo se vorrai e se te la sentirai. Te la butto lì, un modo per ricordarla e farla conoscere a chi non ha potuto, perché credo sarebbe bello che vivesse anche attraverso quelle sue parole nel ricordo di altri. Però deciderai tu, sappi che il gruppo è a disposizione.
E sì, immagino ne sia valsa la pena. Io credo che pochi di noi abbiano la citata fortuna di poterlo dire, alla fine.
Per qualsiasi cosa, ci sono.
(Ho dimenticato di dirti che “I wish you a kinder sea” è uno degli auguri più belli che si possa fare. Completo, potente, senza neanche il bisogno di essere spiegato. Un mare che sogniamo tutti.)
Mi dispiace davvero tanto, Micol. Vorrei tanto scriverti qualcosa di confortante, qualcosa che ti faccia stare bene, anche solo per l’istante in cui lo leggerai, ma io sono più brava a leggerle, le parole, che a scriverle. Penso che quello che avete condiviso e costruito tu e Sabrina insieme sia qualcosa di così prezioso e intimo che mi sento quasi invadente anche solo a scriverne, visto che io ho letto qualcosa di vostro per la prima volta solo qualche giorno fa. Spero che il tempo guarisca gli “e se” e tutte quelle ferite che si aprono quando una persona cara ci sta lasciando e facciamo di tutto per minimizzare i danni; spero che alla fine ti resti la dolcezza di averla conosciuta e di aver condiviso una parte di navigazione insieme. Un abbraccio.