Questa recensione in realtà non doveva esistere. Non sul blog, almeno: non pensavo di avere abbastanza da dire. (Lo so. Sembrava un po’ paradossale…) Avevo deciso di parlarne nella newsletter che ho lanciato un paio di settimane fa – perché ho lanciato una newsletter, anche se ovviamente qui non ero ancora arrivata a dirlo: si chiama sempre Effemeridi e parlerà sempre delle stesse cose, solo a cadenza fissa e direttamente nella vostra casella email: se vi interessa, qui potete iscrivervi ♥ – collegandolo a un discorso più ampio su cosa intendo io per letteratura LGBTQ+, ma come al solito mi sono fatta prendere la mano e insomma. È venuta fuori una cosa decisamente troppo lunga per quella sede e – nonostante avessi letteralmente esordito con “Non farò una recensione” – presumo che di recensione si tratti. Così, ho deciso di usarla per aggiornare finalmente il blog con qualcosa di bello e lasciare alla newsletter discorsi un po’ più vari.^^
Venendo al punto, quindi. Non so se avete sentito parlare di Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart. Da noi è uscito il mese scorso per Mondadori, nella traduzione di Carlo Prosperi, mentre il mondo anglosassone l’ha scoperto l’anno scorso, quando la Picador, una casa editrice indipendente americana molto molto interessante (la stessa che ha pubblicato Una vita come tante, per capirci) ha scelto di scommettere su questo esordio rifiutato da tutti e l’ha visto catapultare a finalista del Booker Prize (che ha poi vinto). Io sono venuta a sapere della sua esistenza più che altro perché tifavo per un suo rivale (Real Life di Brandon Taylor, che ho amato davvero tantissimo), ma anche perché Lithub in quel periodo ha pubblicato una bellissima intervista all’editor che l’ha acquisito: un tizio meraviglioso che, oltre a notare il potenziale di Stuart, ha avuto l’intuito e la gioia di gestire alcuni dei titoli più celebrati degli ultimi anni, tra cui lo scorso vincitore del Booker Prize, Donna, Ragazza e altro di Bernardine Evaristo, e Acquadolce di Akwaeke Emezi, solo per citare i due che più possono interessarci in questo blog.
Con queste premesse – e sapendo che Stuart è dichiaratamente gay, e che lo Shuggie Bain del titolo è “diverso” dagli altri ragazzini – credo che mi aspettassi un po’ un nuovo gioiello della letteratura LGBTQ+. Ma anche se non posso dire di essere stata delusa (il romanzo è davvero molto bello), e anche se fin dal primo capitolo risulta molto chiaro che la “diversità” di Shuggie pervade anche la sfera sessuale, è innegabile che quella raccontata non sia davvero la sua storia. Il primo e l’ultimo capitolo fanno soprattutto da cornice al lunghissimo flashback che costituisce il grosso della narrazione incentrato sulla protagonista indiscussa: sua madre.
Ora, non starò a riassumere la trama: diciamo solo che il romanzo è ambientato nella Glasgow degli anni Ottanta, devastata dalle politiche thatcheriane, e racconta la storia di un bambino, lo Shuggie del titolo, ma soprattutto di sua madre, Agnes Bain: le sue difficoltà a integrarsi in una comunità a cui in fondo non vuole appartenere, le sue debolezze, i suoi errori e il suo progressivo arrendersi a se stessa e agli altri. (Non credo sia uno spoiler dire che non finirà bene: il romanzo si apre letteralmente su Shuggie sedicenne che fa il possibile per sopravvivere da solo a un mondo che lo tratta con indifferenza nel migliore dei casi.)
È un romanzo ruvido, complesso dal punto di vista linguistico (non ho idea di come sia stato resa in traduzione lo scozzese ostico con cui Stuart ricrea la lingua in cui è cresciuto) e pregno di una poesia che si manifesta spesso più nelle immagini (i gesti di un personaggio, un paesaggio particolarmente evocativo) che nella prosa comunque bellissima. È anche un romanzo, per me, intriso di una disperazione sommessa, assoluta. Non è una lettura consolante, sotto nessun punto di vista. Agnes procede passo a passo verso una fine inevitabile e questa sua discesa tende a trascinarsi dietro tutto: la vita dei figli, la propria, la salute, ogni equilibrio faticosamente conquistato e puntualmente perso.
Potremmo dire che è un romanzo sull’amore – l’amore di un figlio per la madre: credo che l’autore l’abbia scritto per questo (attingendo a esperienze personali che sembrano avere parecchio in comune con quelle del suo personaggio) – ma per me è stato soprattutto un romanzo sulla dipendenza. Sulla disperazione che alla dipendenza porta e sulla disperazione che la dipendenza crea, sulla fatica impossibile di tirarsene fuori quando tutti, intorno, non fanno che condannarti a rientrarci. Sull’orizzonte piatto di un futuro già deciso, e forse – spaventosamente –, anche sull’egoismo di inseguire le illusioni sbagliate.
È un romanzo sulla solitudine, in sostanza. Un altro libro che ho in testa in questi giorni – perché ci sto lavorando, perché lo amavo da prima ancora di leggerlo: ci sarà tempo di parlarne in futuro – esplora a fondo il tema dell’alcolismo e lo definisce una malattia della solitudine. Mi è tornato in mente spesso mentre leggevo di Agnes, dei suoi figli, delle monadi in cui ciascuno di loro sembra vivere senza la minima capacità di stabilire un contatto vero con l’esterno. Pensavo al mondo che abitano, all’ostilità che quasi ogni singolo personaggio mostra verso gli altri se non persino verso se stesso, e provavo uno strano senso di vergogna misto a rabbia. La povertà della Scozia di quegli anni costituisce il sostrato su cui si innesta l’azione, ed è fatta di tanti degli aspetti che possiamo aspettarci: l’abbruttimento di una comunità abbandonata a se stessa, la fatica di non sapere come tirare avanti, l’omofobia imperante, la violenza domestica, l’odio feroce verso qualunque barlume di diversità, che sia un bambino troppo sensibile e delicato o una donna troppo bella che pretende di distinguersi dalla massa.
Considerate le premesse, avevo messo in conto l’argomento, ma pensavo che l’attenzione sarebbe stata puntata – secondo quella che direi essere un po’ una tradizione della letteratura LGBTQ+ – sul modo in cui il protagonista non riesce a integrarsi nella comunità compatta dentro a cui è nato e cresciuto, sul modo in cui questa lo rifiuta per la sua differenza. In Shuggie Bain questa comunità compatta non esiste, però, almeno non in senso positivo: la solitudine è un tratto comune, quasi esistenziale. Se la porta dietro suo fratello Leek (forse il personaggio che più ho amato di tutto il romanzo), vi affonda fino a perdersi Agnes, la sfiorano gli uomini che frequenta, la bevono le donne che la guardano con sospetto e vi si dibattono persino i bambini, descritti come un fronte comune che Shuggie non riesce a penetrare ma uniti più dalla volontà di tenere fuori lui, pare, che da quella di stare loro insieme. Il sesso stesso, che percorre il romanzo come un diramarsi di crepe, non offre sollievo a questo isolamento: sembra piuttosto renderlo ancora più netto. E anche se il finale offre un barlume di riscatto – anche se l’immagine conclusiva è forse la più bella e luminosa delle fotografie commoventi che punteggiano la storia – ho chiuso il libro con un sapore amarissimo in gola.
Poi certo, questa è la mia lettura. Ed è una lettura influenzata dal periodo, senza dubbio, dal senso di soffocamento che mi provoca l’idea di una comunità come quella, a prescindere dalla sua ostilità dichiarata, dal rapporto complesso che ho con il tema della maternità egoista e imperfetta, la difficoltà forse un po’ moralistica a non giudicare una donna che costringe i propri figli a farsi carico di lei, fin da giovanissimi: ho fatto non poca fatica a provare empatia per Agnes, per esempio. (E a questo proposito, se foste interessatз, consiglio la recensione molto bella e approfondita che Alessia Ragno ha fatto su L’Indipendente: perché nella sua lettura ho intravisto qualcosa di più vicino a quello che forse l’autore voleva esprimere e che io non credo di aver saputo cogliere del tutto.) Ma è un romanzo importante, meritamente elogiato, e anche se la tematica che più mi interessa viene trattata in modo più velato di quanto mi aspettassi sono contenta di averlo letto, e credo che sia importante anche nell’ambito della letteratura LGBTQ+.
Se poi vi interessa ragionare al riguardo – in questa e altre occasioni, presumo –, volete una carrellata delle uscite a tema che mi sono sembrate più interessanti negli ultimi quindici giorni (sono *così tante* che non credo mi basterebbe smettere del tutto di dormire per recuperarle) o volete anche solo seguirmi in un ambito dove spero riuscirò a sentirmi un po’ più a mio agio rispetto ai social che, soprattutto in questi ultimi tempi, non sono stati proprio la mia dimensione ideale, iscrivetevi alla newsletter.^^ ♥ Io vi aspetto, e spero di ricevere magari anch’io qualche lettera di risposta da voi.