Questo fine settimana stavo preparando la nuova puntata della newsletter di Effemeridi – potete iscrivervi qui, se vi interessa riceverla – che è venuta particolarmente corposa perché tra le nuove uscite a tematica LGBTQ+ ci sono tre libri che ho amato tantissimo – qui trovate la rassegna – e quando è arrivato il momento di approfondire come sempre un titolo mi sono accorta che avevo decisamente troppo da dire per lo spazio che mi era rimasto. Così, come con Storia di Shuggie Bain, ho deciso di trasformare quelle riflessioni in un post vero e proprio.
L’argomento del giorno è Non parlare di Uzodinma Iweala, autore statunitense di origine nigeriana, che la Nua Edizioni ha portato in Italia nella traduzione di Chiara Messina ed Emanuela Piasentini. È un testo importante, sia dal punto di vista letterario che da quello sociale e educativo, e spero davvero che avrà la risonanza che merita, perché tocca tantissimi temi molto attuali – in maniera così profonda e condensata che è un po’ un miracolo in sé – dall’omofobia (e l’omosessualità indagata in prospettiva etnico-culturale) al razzismo istituzionalizzato, dalle varie difficoltà che possono sorgere in seno alle famiglie (genitori troppo presenti e autoritari, genitori distratti e assenti e permissivi) ai rapporti con gli amici e i coetanei, dall’elaborazione del lutto all’attivismo, dalla violenza della polizia alle terapie di conversione, e riesce a farlo in maniera linguisticamente originale – e bellissima – senza essere pesante.
Piccolo disclaimer che sento di dover fare prima di andare oltre: si tratta di un testo su cui ho lavorato anche io – seppur in minima parte, perché mi sono occupata solo dell’ultima lettura/revisione – e a cui in realtà volevo bene ancor prima di cominciarlo. Questo, però, in realtà significa soprattutto che l’ho letto con un’attenzione maggiore di quella che puoi riservare di solito alle letture di piacere, e soprattutto due volte, innamorandomene più alla seconda che alla prima. Credo che sia un dato fondamentale, questo: quando un romanzo costruito su un colpo di scena importante (perché Non parlare è letteralmente tagliato in due da un evento che qui non possiamo dire) acquista ulteriore spessore una volta “spoilerato”, quando innumerevoli dettagli che alla prima lettura erano già perfettamente amalgamati al contesto diventano di colpo gravidi di un significato più struggente e profondo, quando i rimandi si moltiplicano, e lo stesso fa la commozione, ti rendi conto di avere davanti qualcosa di prezioso. Cesellato, ragionato, condensato al massimo. E non sono sicura che avrei capito quanto se l’avessi letto e basta, soltanto per leggerlo: se non avessi dovuto – potuto – tornarci sopra di nuovo. Quindi ecco: non sto dicendo che dovete leggerlo due volte per apprezzarlo, assolutamente. Ma se voleste farlo (e la sua brevità lo rende più fattibile del solito) non resterete delusз, lo garantisco.
Ora, detto questo. Non parlare racconta la storia di due adolescenti, Niru e Meredith. Compagni di classe, amici che potrebbero diventare qualcosa di più se non fosse per il segreto che Niru nasconde al mondo, ragazzini che aspettano con il fiato sospeso che la vita vera cominci. Giovani, belli, con famiglie ricche pronte a sostenerli e ad aprire loro tutte le porte possibili, in un posto – i quartieri bene di Washington D.C. – dove le porte sono tante quante le opportunità che offrono. Ma nascere nel luogo giusto non basta, spesso: lo vediamo con Niru, figlio di emigrati nigeriani, diviso tra due culture e identità e il peso delle diverse aspettative, e anche con Meredith, in fondo, in maniera meno violenta e più banale, nella solitudine di una famiglia distratta, proiettata verso l’esterno – il denaro, la carriera – più che sulle fragilità intime della vita. Per far crollare tutto è sufficiente una crepa, e la crepa in questo caso è proprio il segreto di Niru, la sua omosessualità: l’imprevisto che costringe allo scontro generazioni, sensibilità e culture. Quando suo padre lo scopre, interviene brutalmente e trascina il figlio in Nigeria per un rito che dovrebbe liberarlo dal demonio – quel veleno straniero – ma non fa altro che spezzare la sua anima e il suo rapporto con i genitori. Al rientro niente sarà più lo stesso, la vita di Niru, la sua amicizia con Meredith, la sua stessa visione del mondo: finché qualcosa di ancora più drammatico non arriverà a deragliare del tutto la storia e le esistenze dei protagonisti, scaraventando il romanzo nel futuro della seconda parte, raccontata da Meredith a posteriori.
Non è un romanzo facile, questo va detto. Non lo è dal punto di vista narrativo – la brevità è tutta frutto di condensazione, la prosa è concitata, poetica, vibrante, un presente inframmezzato di flashback e di dialoghi riportati senza virgolette, in un ritmo sincopato che a volte diventa davvero magistrale – e non lo è dal punto di vista dei temi – la religione, l’omofobia, lo scontro delle culture, il razzismo istituzionalizzato e il modo in cui permea drammaticamente (e con un’attualità agghiacciante) l’operato delle forze di polizia – ma soprattutto non lo è perché Iweala rifiuta sistematicamente le semplificazioni e le spiegazioni di comodo, il bisogno di dividere la realtà in bianco e nero. Persino il tema delle terapie di conversione è trattato in modo sfumato, non perché non siano presentate come orribile – sono orribili, senza alcun dubbio – né perché l’autore non si soffermi sugli effetti traumatici e del tutto negativi (oltre che sull’assoluta inutilità) che hanno sulle loro vittime – le pagine dedicate alla vita di Niru al ritorno dalla Nigeria sono bellissime e strazianti – ma perché viene raccontata in maniera delicatissima e insieme brutale quella che è un’incomprensibile realtà: i tuoi genitori possono amarti davvero tantissimo, sinceramente, dare la vita per te, per garantirti una felicità, e nonostante questo odiare o temere così tanto una parte fondamentale della tua natura da essere pronti a mutilarti l’anima pur di strapparla.
Il padre di Niru è un uomo inflessibile, religioso e omofobo, con un amore profondissimo per il figlio omosessuale, e il contrasto tra queste due realtà inconciliabili è solo uno dei tanti fili che compongono la trama, ma credo sia quello che mi ha colpito più a fondo, a cui ancora mi trovo a pensare a distanza di mesi. Sarebbe bastato questo a farmi innamorare del romanzo: il modo in cui Iweala ha raccontato – ai margini di altro – questa storia straziante, il modo in cui l’ha sviscerata senza cedere a nessun facile compromesso, a nessun pietismo. Non c’è perdono esplicito, non c’è redenzione, non c’è nessuna conclusione consolante o pulita a una vicenda che resta per forza di cose slabbrata – una ferita aperta – e questo vale per Niru quanto per suo padre, per Meredith e le sue debolezze, per tutti i personaggi più o meno importanti della storia: perché la vita è così, ed è bello, per quanto doloroso, che la letteratura riesca a raccontarlo. Soprattutto perché, nonostante il dolore, c’è luce, nel finale e in ogni singola pagina che lo precede, nei conflitti che contrappongono i protagonisti senza che nessuno dei due sia mai completamente nel giusto, nei rimorsi che si lasciano alle spalle, nei sogni che perdono. In quelli che rimangono.
È un romanzo che commuove nel profondo e senza mai scadere nella retorica, anche quando la tentazione dev’essere stata forte. Quando sarebbe stato senz’altro più semplice. E lo fa senza ridurre la trama ai traumi dei suoi protagonisti, intrecciando traiettorie diverse, sovrapponendo piani temporali, piani di lettura, l’intimità di una narrazione fortemente introspettiva e l’orizzonte ampio di un’ambientazione che va dall’Africa all’America. Con una storia che può parlare ai ragazzi – che parla di loro, per loro – ma anche, in modo forse neanche troppo diverso, agli adulti. E racconta di amore, di morte, di dolore e tradimenti e lealtà. Di amicizia e famiglia. Di tolleranza e paura. Di segreti, e bellezza.
Di vita, insomma. Nel modo complesso e miracoloso della letteratura.
Spero davvero che lo leggiate, e che piaccia anche a voi quanto è piaciuto a me.
Non parlare, Uzodinma Iweala
Nua edizioni, maggio 2021
Traduzione di Chiara Messina e Emanuela PiasentiniSeguendo il sentiero tracciato da romanzi come La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Diaz, e Americanah, di Chimamanda Ngozi Adichie, Non parlare indaga i conflitti che la diversità innesca all’interno di una società che, a dispetto dei suoi sforzi, continua a essere intrinsecamente conformista. Dopo il suo folgorante debutto, Bestie senza una patria (da cui è stato tratto il film Beast of No Nation, interpretato da Idris Elba e diretto da Cary Fukunaga), Uzodinma Iweala scrive un libro sulla potenza delle parole all’interno del processo di autoidentificazione dell’individuo, e sulla possibilità di far sentire la propria voce.
Due amici. Due universi paralleli che si sfiorano senza mai incontrarsi. E un segreto che, una volta svelato, minaccia di abbattersi sulle loro vite con una forza devastante.
Niru è il perfetto ragazzo americano. Cresciuto a Washington da una coppia di genitori molto presenti, frequenta con profitto un prestigioso liceo privato dove primeggia anche in ambito sportivo. Pronto a partire per Harvard in autunno, le sue prospettive sono radiose. Ma il ragazzo ha un segreto: è gay, una colpa gravissima agli occhi dei suoi genitori nigeriani e conservatori. Nessuno sa la verità a parte Meredith, sua migliore amica e figlia di due membri dell’élite cittadina, l’unica persona che sembra non giudicarlo.
Quando il padre di Niru viene a conoscenza della sua omosessualità, le conseguenze sono gravi e repentine, e Meredith, presa dai propri problemi, non si dimostra in grado di sostenerlo.
Determinati a ricostruire la loro amicizia e a realizzare i propri desideri, lottando contro le aspettative e le convenzioni che la società vuole imporgli, i due si trovano a correre incontro a una sorte insensata e violenta, che altererà inesorabilmente il corso dei loro destini.