Non credo che possano esistere i romanzi perfetti. Sto cercando di convincermi che non esiste la perfezione in generale – che non esistono gli assoluti – e quando si parla di bellezza entrano necessariamente in gioco i filtri personali, i gusti, a volte persino la predisposizione d’animo con cui viviamo una certa esperienza: tutti elementi legittimi. Ma da questa soggettività rivendicata, dal mio angolino nella rete, mi sento di dire che I grandi sognatori di Rebecca Makkai è il romanzo perfetto per me, o una delle possibili declinazioni della perfezione. L’ho pensato quando l’ho letto la prima volta, nell’ottobre scorso, dopo averlo evitato per anni perché l’idea di una storia ambientata in uno degli epicentri dell’epidemia dell’AIDS mi terrorizzava, e ho continuato a pensarlo nelle scorse settimane mentre lo rileggevo sapendo come sarebbe andato a finire, e tornando a innamorandomi di tutto. Forse ancora di più.
È perfetto. Nella struttura – articolata e ambiziosa col suo alternarsi tra due estremi di un trentennio, tra due protagonisti diversissimi (un giovane uomo gay immerso nella Chicago ferita dall’AIDS di metà anni Ottanta e una donna matura che approda nella Parigi del 2015 per cercare la figlia scomparsa) e due trame che a prima vista sembrano giusto sfiorarsi – così come nella voce, nell’equilibrio che Makkai riesce a mantenere in ogni parola tra la tragedia indicibile che i suoi personaggi attraversano e la dignità, la gioia, la rabbia e la bellezza che li accompagnano, senza mai il minimo cedimento al patetismo, nella spietatezza con cui distribuisce ai suoi protagonisti le carte di un mazzo truccato e la dolcezza con cui li accompagna verso un finale ineluttabile e tragico che, in qualche modo assurdo, riesce a essere trionfante. (Non catartico. Non bello, non solo. Trionfante. Nonostante la sconfitta epocale che racchiude.) Non credo di avere mai letto nulla che mi abbia fatto pensare con tanta forza “voglio imparare a scrivere anch’io in questo modo”, e non perché non abbia mai letto nulla di più bello – sarebbe assurdo provare a fare gerarchie di questo tipo – ma perché non ho mai trovato una corrispondenza così profonda tra ciò che vedevo e ciò che avrei voluto vedere sulla pagina.
Quindi ecco. Credo di poter dire che, per quanto mi riguarda, è uno dei romanzi della mia vita. Ma dato che la mia opinione non conta poi molto, ci terrei ad aggiungere che è arrivato finalista al Pulitzer e al National Book Award, che ha vinto la Carnegie Medal, che è stato elogiato da autori come Garth Greenwell e Michael Cunningham e Viet Thanh Nguyen e che in Italia lo pubblica Einaudi nella collana dei Coralli, con traduzione di Cristiana Mennella. Per obiettività assoluta, rilevo anche che molti di quelli che io considero punti di forza straordinari – come la struttura alternata che per me è stata provvidenziale, perché mi ha permesso di prendere respiro dal filone densissimo di Chicago senza uscire dalla storia, ma adagiandomi in una sua appendice futura – hanno fatto storcere il naso ad altrз lettorз, e non dico di non poter capire il motivo perché anche a me è capitato di storcere il naso di fronte a strutture simili che mi sembravano gratuite. In questo caso, però, di gratuito per me non c’era nulla, anzi: l’allargarsi dello sguardo ne aumentava solo la potenza.
Adesso cercherò di andare un po’ più nel dettaglio, però, invece di sproloquiare e basta su quanto è tutto bellissimo. (Ma lo è. Davvero.^^) Il romanzo, come dicevo, si divide in due filoni alternati: il primo e più importante – anche in termini di spazio effettivamente dedicato – è quello ambientato nella Chicago del 1985-90, e segue da vicino (con una focalizzazione interna in terza persona semplicemente magistrale nel portarti dentro la testa del protagonista e filtrare ogni singola cosa dal suo punto di vista) Yale, un giovane gallerista di Chicago, che cerca di continuare a vivere nonostante il suo mondo stia crollando: nel primo capitolo lo incontriamo insieme al compagno, Charlie, direttore di uno dei giornali gay più importanti della città, mentre partecipano alla festa organizzata in ricordo di uno dei loro migliori amici, Nico, morto poche settimane prima di AIDS.
Aprire su questa scena è una dichiarazione di intenti, in qualche modo: non solo perché mette in evidenza il ruolo che la malattia e la morte avranno nell’intero romanzo, ma anche per la prospettiva che offre da subito. Nico, morto prima ancora che la storia cominci, è uno dei personaggi più vivi che io abbia mai incontrato, i suoi amici lo ricordano con amore viscerale e fame di vita almeno quanto con rabbia e lacrime, i rapporti che vengono delineati in questo primo capitolo sono così profondi, così fulgidi – così famiglia, in contrapposizione netta con l’altra famiglia biologica che ha gettato in strada Nico da ragazzino e si è lavata le mani di lui finché non è venuto il momento di trafugarne il corpo e vietare alle persone che l’avevano amato la possibilità di salutarlo – da colpire soltanto in positivo, nonostante la tragedia in cui sono immersi, e così resteranno per tutta la durata della narrazione. È commovente nella maniera più coraggiosa, un sorriso tra le lacrime. Struggente e rabbioso, intimo. Felice.
Pochi giorni dopo la festa in ricordo di Nico, Yale riceve un messaggio dell’anziana prozia dell’amico, intenzionata a donare alla sua galleria una serie di quadri e schizzi d’autore – pittori del calibro di Modigliani – raccolti durante la giovinezza parigina. Lui va a incontrarla, un po’ scettico sull’originalità effettiva dei pezzi, e rimane ipnotizzato dalla storia che la donna racconta, dalle opere che ha custodito per tanti anni: la principale linea narrativa del romanzo, su cui si innestano tutti gli sconvolgimenti personali, la parabola terribile della sua storia, le sue gioie e i suoi dolori e quelli dei suoi amici, è rappresentata dai suoi sforzi per portare la collezione della prozia di Nico nella galleria in cui lavora e organizzare una mostra che ne rispetti i voleri.
L’altra linea narrativa, rappresentata dal filone di Parigi, ha come protagonista la sorella di Nico, Fiona, con cui Yale a Chicago stringe un rapporto sempre più intimo, e lascia vedere l’altra faccia della medaglia: cosa significa sopravvivere e diventare custodi della memoria, vivere nel solco dell’assenza, del senso di colpa, e l’effetto che questo può avere sulle tue relazioni future. È come un veleno, o una radiazione, non tocca soltanto te ma anche tutte le persone che tu puoi toccare: il rapporto con la figlia scomparsa è segnato dal trauma che Fiona si porta dietro, gli anni trascorsi a fare da madre al fratello maggiore respinto dalla famiglia, quelli successivi in cui è stata al suo fianco mentre moriva e poi ha continuato a stare al fianco del suo ragazzo, di tutti i suoi amici, ragazzina mascotte divenuta santa protettrice dei reietti, incapace di darsi a nulla se non a quella vocazione.
Fiona è la ragione per cui, secondo me, il filone di Parigi amplifica una storia che in sua assenza sarebbe stata più banale, limitata: a Chicago, vista dagli occhi di Yale, Fiona era tutta grinta giovanile e coraggio e abnegazione. Trent’anni dopo la ritroviamo più vecchia, matura, con tanti sbagli alle spalle e tantissime imperfezioni: segreti che macerano dentro, verità vergognose e quasi indicibili che aprono spiragli sulla realtà del dolore, sul modo in cui ti appesantisce. E intanto, la storia di Parigi che la sua prozia raccontava a Yale ottiene compimento; Parigi stessa appare in una luce diversa, più reale, il paragone esplicito nel testo tra la Generazione Perduta che negli anni Venti aveva dovuto ritrovarsi dopo la Grande Guerra e quella dei giovani omosessuali che negli anni Ottanta morivano a frotte dopo qualche anno di liberazione ed euforia trova la sua eco in un altro duro rimando tra le epoche della Storia, l’Europa segnata dal terrorismo e le considerazioni amare di un personaggio che, anno dopo anno, suonano sempre più profetiche. E al tempo stesso, altri rimandi più dolci: un’altra mostra – fotografica – parallela a quella che Yale cercava di organizzare nella galleria di Chicago, i volti del passato che riemergono dalla storia, le assurdità del destino che si fanno carne e ottimismo in un colpo di scena che sembra un po’ un regalo, anche se forse non quello che si sarebbe voluto. Il sapore dolce-amaro del ricordo.
È un romanzo bellissimo, davvero. E finora ho parlato di struttura, di trama, delle testimonianze importanti che porta: ho cercato di mantenermi oggettiva. Ma in chiusura ho bisogno di soffermarmi un minimo sulla principale ragione per chi mi sono innamorata così follemente di questa storia, per cui sono sicura che tornerò a rileggerla (e non so da quanti anni era che non rileggevo a distanza di soli sei mesi un romanzo di cinquecento pagine e passa): i personaggi. Non sono ancora riuscita a isolare del tutto le caratteristiche che rendono ogni singola comparsa di questo romanzo così perfetta e memorabile da restarmi impressa nel cervello per mesi, anche se di solito dimentico i nomi dei protagonisti appena chiudo un libro: Makkai ha questa capacità, però – e lo so per certo perché l’ho trovata altrettanto netta nei suoi racconti -, di delineare un’intera personalità, fisicità e storia in una riga scarna, in una battuta. I suoi personaggi, tutti, dai protagonisti veri e propri e i personaggi ricorrenti alle comparse che magari appaiono solo un paio di volte in tutto il romanzo, hanno una voce unica, manierismi e personalità e tutta una costellazione di desideri e dolori e paure, tutta una storia da raccontare.
Non si può dire che I grandi sognatori sia un romanzo corale – ha letteralmente due soli punti di vista, con una focalizzazione così stretta che anche in seconda lettura, ricordando perfettamente gli errori atroci di Yale nell’interpretazione di un dato evento o personaggio, non riuscivo a uscire dalla sua prospettiva – eppure lo è, in qualche modo, nella sua capacità di catturare le scene collettive e di gruppo, le riunioni del giornale di Charlie, il Pride di Chicago, Boystown, le proteste di Act Up, l’attivismo e i dibattiti e i funerali e i momenti di cazzeggio, persino, di dolcezza struggente. Ci sono innumerevoli passaggi in cui mi sono trovata a ridere o sorridere nonostante i personaggi stessero parlando di morte, per il modo in cui lo facevano, per il senso di vita che sapevano trasmettere. Per la loro bellezza, così eterna e così fragile.
È un romanzo importante. Lo è per il lavoro di documentazione svolto dall’autrice, lo è per la storia che recupera (la tragedia dell’AIDS a Chicago, passata in sordina rispetto alla deflagrazione di New York e San Francisco) e per la validità che ha ancora oggi (e Alessia Ragno su Indiependente ha scritto una bellissima recensione che inquadra il romanzo proprio in questo contesto), lo è perché racconta un mondo sull’orlo dell’abisso e personaggi giovanissimi che credevano, con la morte nel cuore, di essere gli ultimi, che nessuno sarebbe sopravvissuto loro, che nessuno avrebbe potuto raccogliere la loro eredità di amore e speranza. (E sappiamo quanto questa paura per certi versi sia stata infondata, quando il mondo sia cambiato in meglio, adesso, per le persone come noi, come loro, con conquiste assolutamente impensabili a quel tempo.)
Ma è anche un romanzo intimo, un romanzo che ti accoglie e ti offre una casa come la Boystown di Chicago – come tanti altri quartieri in altre città del mondo – ha fatto con una generazione di ragazzi soli e terrorizzati: offre amicizia, amore, famiglia. Voglia di vivere e forse anche di lottare. Di essere fedelз a se stessз. Ed è un romanzo che io ho amato in modo troppo intimo e personale – per ragioni che ho tentato di spiegare un po’ nella newsletter di questa settimana – per poter immaginare quale effetto potrà avere sugli altrз, ma che mi sento di consigliare tantissimo lo stesso, a tuttiз.
Spero che darà qualcosa anche a voi.
I grandi sognatori, Rebecca Makkai
Einaudi Editore, maggio 2021
Traduzione di Cristiana MennellaChicago, 1985. Al giovane Yale Tishman non manca niente: ha un lavoro gratificante, una relazione stabile, un gruppo affiatato di amici. Ma il mondo intorno a lui sta crollando. La nuova epidemia di Aids si diffonde rapidamente anche a Chicago, e Yale assiste inerme alla sofferenza della sua comunità, legandosi sempre di piú alla sorella di un amico, Fiona. Trent’anni dopo Fiona segue le tracce della figlia scomparsa. La ricerca l’ha condotta a Parigi: qui, tra le avversità del presente, un inatteso incontro con i ricordi le darà l’occasione per riconciliarsi con il passato.
Arte, amore, amici: nella vivace Chicago degli anni Ottanta Yale Tishman sta gettando le basi per un prospero futuro. Grazie al nuovo impiego alla galleria Brigg della Northwestern University, accarezza piccoli grandi progetti, come l’acquisto di una bella casa da condividere con l’amato Charlie. Ma intorno a lui il mondo sta crollando. L’epidemia di Aids dilaga e nel 1985 una diagnosi di positività al virus equivale a una sentenza di morte. Il contagio non ha risparmiato la comunità gay di Chicago: da tempo Yale assiste impotente alla sofferenza di tanti amici che, oltre a lottare contro una malattia logorante, devono fronteggiare il disprezzo delle famiglie, lo sdegno della società, l’indifferenza delle istituzioni. Anche Nico, a cui Yale era molto legato, ne è rimasto vittima. Dopo la sua morte, Yale si affeziona alla sorella del ragazzo, Fiona, che ha sempre sostenuto Nico nonostante il dissenso dei genitori. Quando a una a una le certezze di Yale si sgretolano, sarà proprio Fiona a restargli accanto e a tenergli saldamente la mano durante la tempesta. Parigi, 2015. Fiona è saltata su un aereo per l’Europa appena ha ricevuto un video girato nella capitale francese in cui sua figlia Claire compare di sfuggita: la ragazza ha troncato i rapporti con lei e quella traccia è la sola speranza di ritrovarla. Qui Fiona è ospite di Richard Campo, un vecchio amico che ha lasciato Chicago, ora fotografo di fama internazionale. Tra rimpatriate e ricordi, quel soggiorno improvvisato si trasforma per Fiona in un viaggio nel tempo, tra le cicatrici del cuore e le ferite rimaste aperte dopo quegli anni funestati dall’epidemia di Aids. Ma sono anche i giorni della strage del Bataclan: come era stato per Yale, anche Fiona deve farsi coraggio per resistere in un presente ostile. E questa volta l’unico modo per riuscirci è riconciliarsi con il passato.
«Nella sua ampiezza e generosità, questo romanzo lascia intuire la portata del primo traumatico impatto con l’Aids, cosí come della rabbia e dell’amore che hanno fatto scudo contro di esso. I personaggi di Makkai sono prostrati ma non sconfitti e, anche dinanzi alla morte, rimangono fedeli ad amicizia, desiderio e alla travolgente, incontenibile vita. Ho molto amato questo libro».
Garth Greenwell
Ciao Ro,
ho letto questo romanzo dopo la tua recensione – alla quale sono arrivata tramite la newsletter.
Confesso di averlo letto con curiosità particolare: il fatto che tu lo abbia definito ‘il romanzo che avresti voluto scrivere’ me lo ha fatto vedere sotto una luce diversa. In più, dal momento che parla di AIDS – che ho studiato con paura e riverenza per anni, senza capire perché mi terrorizzasse tanto qualcosa di così apparentemente lontano da me – mi ha spinta a una connessione profonda.
Ci ho ritrovato tutto quello che hai detto e anche di più. Alcuni passaggi mi hanno commossa così tanto che ho dovuto interrompere la lettura più di una volta.
Ti ringrazio per questa bellissima scoperta, quindi, e continuo a seguire la tua NL in attesa di prossimi suggerimenti <3
Ciao! ♥ Sono davvero felicissima di averti convinto a leggere questo romanzo, e ancora di più che ti sia piaciuto così tanto. È tutto quello che speravo, davvero: i libri che ti costringono a interrompere la lettura perché la commozione è troppo forte – e gestita così bene – sono sempre un piccolo miracolo.
Grazie di avermelo detto, davvero, mi hai migliorato la giornata.^^ E grazie anche di seguire la NL!
Un abbraccio <3