La prima volta che ho incontrato Henry Rios è stato in un saggio sulla letteratura queer dei Latinx, gli statunitensi di origine latino-americana: le autrici del pezzo – contenuto in Gay Latino Studies – parlavano delle tante divisioni interne alla comunità e, come esempio della possibilità di superare le barriere, portavano la gioia che loro due, lesbiche chicanas, avevano trovato nel protagonista di un gay mystery.
Era un aneddoto lungo, articolato, che sfumava il confine tra accademico e personale aprendo una finestra sulla vita in comune di quelle due donne: loro a letto che si smezzavano i libri, scalpitando tra un capitolo e l’altro, leggendosi gli ultimi ad alta voce per non dover aspettare che l’altra avesse finito. Sullo sfondo di quella quotidianità commovente, come una sorta di terza ombra, il nome di Henry sembrava appartenere a un amico più che al protagonista fittizio di una serie pubblicata quando ero bambina, veniva citato con lo stesso affetto. Forse ho cominciato a volergli bene così, prima ancora di conoscerlo, perché ancora adesso è questa una delle prime cose che mi vengono in mente quando penso a quei romanzi. Il loro protagonista imperfetto, idealista e così pieno di amore e rabbia verso il mondo, e quelle due donne senza volto che seguivano la sua storia e me l’hanno presentato.
Era il 2017. Michael Nava aveva concluso la serie da più di quindici anni. Dopo aver letto quel pezzo sono andata a curiosare, perché amo i mystery e l’idea di un avvocato gay di origine messicana come protagonista mi intrigava a prescindere dalle cose che stavo studiando in quel periodo, ed è stato come innamorarsi. Di Henry, dei personaggi di contorno, della prosa di Nava, della California che tratteggiava sullo sfondo. A quel tempo evitavo come la peste tutto ciò che riguardava l’AIDS – tutto ciò che riguardava la morte e la malattia, in effetti – e questa serie affronta il tema di petto, ma per la prima volta ho scoperto di essere in realtà affamata di storie di quel tipo: storie dove l’AIDS non è solo qualcosa di orribile, una disgrazia da compatire o l’ennesima piaga inflitta a una minoranza specifica, ma una realtà dal peso sociale, politico, lo sfondo su cui un’intera generazione ha continuato ad amarsi e lottare e riconoscersi. Ho il vago ricordo di avere scritto una recensione estasiata, alla fine della lettura, condivisa solo con un gruppo ristretto di persone perché avevo bisogno di dire a qualcuno LEGGETE ma non me la sentivo di appioppare al pubblico un tale delirio incentrato su una serie disponibile solo in inglese. E le possibilità che arrivasse in Italia mi sembravano davvero molto molto ridotte.
Non credo di avere pensato seriamente che un giorno avrei potuto tradurla io.
Sembrava ancora più impossibile.
(Che poi è la ragione per cui sto scrivendo questo adesso, anche se l’obiettività imporrebbe di non recensire i romanzi a cui si è lavorato: sono cinque anni che aspetto di parlarne, tenete conto del disclaimer e considerate questo un commento alla versione originale. E una premessa alla traduzione, forse, anche: a quello che ho sperato di riuscire a mantenere.)
Ma veniamo al presente.
La serie che la Triskell ha cominciato a pubblicare in questi giorni non è esattamente quella in cui mi sono tuffata io cinque anni fa. In quello stesso periodo l’autore, dopo un lungo silenzio e una lunga assenza dalla scena editoriale, aveva ripreso in mano la serie per ripubblicarla e questo processo lo ha portato a modificare – in meglio – alcune cose. La versione pubblicata tra gli anni ’80 e ’90 aveva una certa qualità provvisoria: il primo romanzo, per esempio, The Little Death, era stato pensato come uno stand-alone e risultava piuttosto slegato dal resto della serie, che pur avendo lo stesso protagonista sembrava cominciare di fatto dal secondo volume. E la scrittura – ottima fin dall’inizio, sia chiaro – faceva un salto di qualità nettissimo con il terzo volume, Howtown, che entra direi di diritto nel campo della letteratura gay a tutto tondo.
Con la nuova edizione, quella acquisita dalla Triskell, Nava ha riscritto quasi da zero il primo titolo, mantenendo i protagonisti e gli snodi cruciali della trama ma concedendosi di lasciare molto più spazio all’aspetto relazionale e psicologico dei personaggi; scritto un secondo – e bellissimo – romanzo del tutto nuovo, Carved in Bone, che l’hanno scorso ha vinto il Lambda come miglior gay mystery; e sostituito il secondo libro della serie originale con un altro, Lies With Man, uscito questa primavera. I cinque romanzi successivi sono ancora quelli originali, invece, e credo che, con queste modifiche, l’intera serie rappresenti un affresco ancora più completo e struggente di quello di cui mi sono innamorata anni fa. E segua in modo ancora più preciso, empatico e chirurgico il percorso del suo protagonista, Henry Rios.
Una precisazione, a questo proposito. La Triskell è una casa editrice che si occupa soprattutto di narrativa romance; anche le serie mystery che propone – penso ai romanzi di Josh Lanyon – sono spesso ibride, da questo punto di vista. Seguono il protagonista in vicende sentimentali che rispettano tutti (o quasi) gli stilemi del romance. La serie di Henry Rios non rientra in questa categoria, invece.
Non sto dicendo che non parli di amore. Ogni singolo romanzo ha, credo, come centro emotivo e nevralgico, la relazione del protagonista con un altro uomo, e questa relazione è sempre profondamente legata all’amore – a vari tipi di amore, oserei dire – e nel corso della serie una di queste relazioni si sviluppa anche su più romanzi, ed è bellissima e straziante e vale ogni singolo istante che un lettore interessato all’amore tra uomini decida di concederle, ma siamo decisamente nel campo della narrativa gay, non di quella romance. Questione di orizzonti diversi, stilemi, intenti.
Michael Nava ha dedicato almeno una ventina d’anni della sua vita a questo protagonista meraviglioso, l’ha preso da giovane uomo e l’ha accompagnato verso la maturità mentre gli anni passavano per entrambi, e quello che racconta in questi otto libri è la sua vita, con le sue dolcezze, le sue gioie, le sue sconfitte, i suoi dolori. Ha un lieto fine – un lieto fine bellissimo e struggente e coerente e meritato – ma il percorso è lungo. E accidentato. E il protagonista è lui, Henry Rios. Non in coppia, ma come individuo.
Terminata questa (lunghissima, scusate) introduzione alla serie, passiamo al romanzo di cui dovrei effettivamente parlare: Il cielo protegga gli innocenti.
Comincio con una nota sul titolo, un po’ perché ho bisogno di sgravarmi la coscienza e un po’ perché credo che sia un buon filtro attraverso cui presentare il romanzo in sé, i suoi temi, il suo protagonista.
Come accennavo, si tratta della riscrittura dell’esordio dell’autore, The Little Death, pubblicato con un titolo molto diverso (e purtroppo intraducibile): Lay Your Sleeping Head. Fin dal primo momento in cui l’ho visto ho pensato che questo cambiamento fosse una dichiarazione di intenti: la prima versione della storia si inseriva in modo piuttosto programmatico nel genere del vecchio mystery americano, nonostante la particolarità di un protagonista gay e la novità assoluta di un protagonista gay di origine messicana. Il titolo, “La piccola morte”, incapsulava perfettamente entrambe le cose e in realtà avrebbe potuto funzionare anche per questa nuova versione: il rimando – con entrambe le sfumature – è ancora presente nel romanzo. Abbiamo – ho, almeno – considerato la possibilità di mantenerlo. Ma Nava quando ha riscritto il romanzo ha scelto di puntare su qualcosa di molto diverso: “Lay Your Sleeping Head” vuol dire letteralmente “posa il tuo capo addormentato” ed è il verso iniziale di una struggente poesia di Auden. L’amore omosessuale era al centro in modo esplicito, manifesto, e avrei dato qualunque cosa per poter mantenere il riferimento ma purtroppo la metrica italiana è inflessibile e non c’era modo di rendere orecchiabile una traduzione letterale. Quella letteraria – perché la poesia ovviamente è tradotta – era altrettanto improponibile. E così, siamo state costrette a deviare su altri riferimenti.
Personalmente, il titolo che abbiamo scelto mi piace molto. Mi mette un po’ a disagio che sia così lontano dall’originale, ma il passaggio da cui è tratto è secondo me molto bello e soprattutto racchiude quelli che mi sembrano un po’ i concetti essenziali del romanzo e della visione del mondo di Henry: il concetto di innocenza – complicato per un avvocato penalista e ancora più complicato per un avvocato idealista fin troppo conscio delle storture della società – e quello di protezione, il disincanto con cui sa di muoversi in un sistema truccato e il bisogno di credere comunque in qualcosa di più alto. Qualcosa di giusto.
È una delle cose che più amo di lui, questa tensione. È un personaggio straordinario perché riesce a essere insieme del tutto coerente e del tutto contraddittorio (la velocità con cui si innamora, per esempio, mi ha sempre fatto tenerezza se paragonata al suo carattere solitario), perché è fin troppo disilluso – dalla legge, dagli uomini, dal mondo – eppure riesce a conservare una fede incrollabile negli ideali che aveva da ragazzo. Perché cammina sul filo, di continuo, e vacilla di continuo, e cade – in un baratro davvero molto spaventoso – eppure riesce a rialzarsi ogni volta. A proseguire sempre nella direzione corretta.
In questo primo romanzo, lo incontriamo sull’orlo del precipizio. È un avvocato brillante – doveva essere brillante anche solo per diventarlo, dato che viene da una famiglia molto povera e ha dovuto conquistarsi tutto da solo – che ha saputo fare carriera senza cedere a compromessi e che precipita in una crisi di fede quando perde un caso importante: un processo da pena capitale con un cliente innocente (di quel reato in particolare). Come conseguenza di quella sconfitta – e soprattutto del modo molto poco posato con cui l’ha incassata – viene esiliato in una cittadina universitaria poco lontana da San Francisco, dove incontra quello che sarà il primo amore fulminante della sua vita: Hugh. Hugh è un ex tossicomane bello, complicato e pieno di segreti; Henry non è sicuro di credere alla veridicità delle storie che racconta – storie di abusi infantili, di omicidi insabbiati, di minacce nascoste – ma crede alla sua sincerità, che è una cosa ancora diversa, e si lancia anima e corpo nel loro rapporto. Sono entrambi giovani uomini feriti ed entrambi trovano sollievo nell’altro. Si innamorano. E poi Hugh muore, in circostanze piuttosto sospette, e Henry è costretto a riprendere in mano le storie a cui non aveva creduto per fare luce su quanto è successo e non lasciare che l’uomo che ama venga bollato come l’ennesimo tossico morto di overdose. L’indagine, purtroppo, scoperchia cose molto più grosse di quelle che si aspettava e finisce per ripercuotersi anche sulle altre persone importanti della sua vita.
Il finale è un capolavoro, dal mio punto di vista. Struggente e teso e bellissimo, dove tutti i tasselli che neanche ti eri resa conto di avere raccolto durante la lettura vengono messi al loro posto per formare un quadro che non vorresti vedere, ma che resta inevitabile. Dolceamaro, in cui la dolcezza sta solo nel modo in cui Nava accompagna Henry verso una prova ineluttabile, e l’amarezza è deflagrante. Ma riesce in qualche modo a essere consolatoria comunque.
È una delle costanti di questa serie, in realtà. Il modo in cui racconta cose orribili, strazianti, eppure così vibranti e vive e vere – di una verità tutta psicologica ed emotiva – che ti trovi a piangere e sorridere allo stesso tempo, per una commozione che è l’antitesi della retorica. Il modo in cui parla di morte per raccontare la vita, e ti fa arrivare alla fine del romanzo ancora più innamorata della sua complessità miracolosa, della sua bellezza sferzante. Della capacità di giudicare senza condannare, propria di qualcuno che fa dell’equilibrio il suo mestiere.
L’altra costante è la qualità della scrittura.
Ci sono due aspetti in cui Nava eccelle, a mio parere. Il primo è strutturale: la caratterizzazione dei personaggi – anche quelli delineati da una semplice pennellata – la distribuzione delle scene, l’intreccio degli eventi, la gestione del ritmo narrativo. Tutte cose che avevo colto durante la prima lettura “passiva” e che ho notato ancora di più smontando il romanzo pezzo a pezzo per lavorarci sopra. Il secondo è più estetico, formale: la bellezza della prosa. Henry è un lettore di poesia – uno dei tanti tratti che condivide con l’autore – e l’intero romanzo è costruito su un equilibrio perfetto tra scrittura semplice e diretta e lirismo quasi nascosto. Lo leggi e scivola come se fosse acqua – ho fatto il possibile per mantenere questa fluidità anche nella traduzione – ma se ti soffermi a ragionare sulle singole frasi scopri un equilibrio meraviglioso, impeccabile, che trascende quasi i confini della lingua: penso mi sia capitato poche volte, traducendo, di potermi permettere un’aderenza così grande all’originale senza che questo portasse a un italiano legnoso. Ho perso il conto delle revisioni che ho fatto alla traduzione – avrò letto il romanzo una decina di volte – ma si è trattato soprattutto di aggiustamenti contenuti, sommessi: spostare una parola, cambiarne un’altra, giocare con i pronomi. Le frasi che ho dovuto riscrivere perché funzionassero anche per noi sono pochissime. E c’è sempre qualcosa di miracoloso, per me, quando questo succede tra due lingue e sintassi diverse come l’italiano e l’inglese.
Avrei tante altre cose da dire, in realtà, ovviamente. Potrei parlare per pagine intere di Grant, per esempio, del ruolo che svolge nel romanzo e del modo in cui riesce a essere un contraltare perfetto sia di Hugh che di Henry, il modo in cui l’ho amato perfino nel finale; potrei parlare di come Nava racconta l’amicizia di Henry con Aaron, la gioia di leggere certi scambi e di vederli navigare contrasti così profondi senza mai perdere l’affetto. E potrei parlare di Hugh, della sua fragilità e della sua forza, del modo in cui ti fa innamorare nonostante tu sappia dall’inizio – dalla sinossi stessa, davvero – quanto farà male perderlo, e della capacità di Nava di tenerlo in vita fino alla fine, in realtà, dispiegando la sua storia molto oltre lo spegnersi della sua voce, recuperandola in maniera quasi ancora più vivida. Ma ho già scritto tantissimo e non sono brava a gestire gli spoiler, quindi preferisco chiudere.
Ci saranno altre occasioni per tornare a parlare di Henry. Il prossimo romanzo della serie è forse ancora più bello, e il terzo – che sto leggendo proprio in questi giorni, comincerò a tradurlo presto – promette di esserlo altrettanto.
Spero faranno innamorare anche voi, se vorrete unirvi al viaggio.
Il cielo protegga gli innocenti di Michael Nava
Ci sono casi capaci di deviare una carriera e incontri che cambiano la vita. Henry Rios – giovane avvocato talentuoso e idealista deciso a vivere allo scoperto nella California degli anni Ottanta – ne ha conferma durante il suo primo incontro con Hugh Paris, un affascinante ex tossico arrestato per possesso di droga proprio quando si era ripromesso di restare pulito. Hugh gli racconta una storia improbabile di violenze e lontani omicidi avvenuti nel cuore della sua facoltosa famiglia.
Rios è scettico, ma la scintilla dell’attrazione erotica accende tra loro un’avventura ossessiva che si conclude solo quando il corpo senza vita di Hugh viene ritrovato con un ago nel braccio nel campus della grande università privata fondata dal suo trisnonno. Rios si rifiuta di credere a un’overdose accidentale e, deciso a dimostrare il suo omicidio, comincia una crociata che finirà per portare alla luce segreti molto più torbidi dell’identità dell’assassino del suo amante.
Nel primo romanzo di una serie che ha segnato il gay noir americano, vincitrice di numerosi Lambda Awards, Michael Nava racconta una vicenda intricata e dolorosa, dove fino all’ultimo niente è quello che sembra, e comincia l’affresco potente di un periodo che, nel bene e nel male, ha cambiato l’orizzonte della comunità gay americana.
Appena terminato, bellissimo ed emozionante, anche se sapere fin dall’inizio della sorte di Hugh rattrista passo passo con la lettura, sempre in attesa del momento tragico. Dopo, il suo pensiero mi ha accompagnato fino alla fine, immaginandolo nel suo ultimo respiro doloroso e solitario col pensiero forse rivolto a Rios consapevole di non rivederlo.
Devo dire che me ne hai fatto innamorare ancora prima di leggerlo (l’avevo già ordinato) solo leggendo la tua recensione.
Spero di leggere a breve il secondo capitolo.
La sorte di Hugh è davvero un’ombra che pesa fin dall’inizio, e per quanto mi riguarda ha continuato a farlo a ogni lettura. Rende anche tutto ancora più struggente, però, proprio perché sai che quella gioia sarà così breve e il finale ineluttabile.
Sono davvero felice che ti sia piaciuto tanto, e felice di aver contribuito a farti cominciare con il piede giusto ♥
Spero che continuerai ad amare anche il resto della serie quanto me^^